DA "IL SEGRETO DI CHELIDONIA" (Secop, 2014).

  IL SEGRETO DI CHELIDONIA  

“Domani vado a Brindisi”, disse Michelangelo alla moglie, dopo essersi accertato che la bambina dormisse. La moglie, che, sdraiata, guardava distrattamente su LA5 un film drammatico con Kurt Russell, si raddrizzò di scatto sul sofà, stupita da quell’inattesa decisione.
“Penserai che io sia pazzo…”. Elsa ebbe un sussulto, “voglio incontrare Sardella. È per un articolo, un saggio che ho letto stamattina. Si fa riferimento a una cura, insomma sì, vorrei saperne di più”.
“Dimmi qualcosa di più preciso”, l’interruppe la donna.
“Ecco, si parla del caradrio… un uccello…” “Un uccello…” “…dallo sguardo miracoloso. Insomma, lo so che la cosa ti sembrerà squinternata e fuori d’ogni logica, ma, se esiste anche solo una possibilità che quella storia del Della Porta sia vera…”
“Della Porta?”
“Sì, ma ne parlano anche Gessner, Aldrovandi, persino Sant’Epifanio…”
“Sant’Epifanio? Micky, ti rendi conto che stai cercando di convincermi della validità di una mirabolante terapia sulla base dell’autorità di un vescovo del IV secolo d.C.? Mi ero resa conto che non stavi bene… che i problemi della bimba ti hanno provocato una sorta di… affaticamento… ma non credevo sino a questo punto…”
“Non sono esaurito, Elsa…” “Io non ho usato quella parola…” “Vabbé, hai detto ‘affaticato’. La sostanza non cambia”. “Per me cambia molto…” “Se fosse vero, Elsa?” “Come puoi soltanto pensarlo?” “Lasciami libero di pensare quello che cazzo voglio! In fin dei conti, non ho ricevuto ancora nessuna chiamata, no? Cosa potrà mai accadere se sto via un paio di giorni?” “Cosa potrà accadere? Cosa potrà accadere? Ti rendi conto che hai intenzione di metterti in macchina alla ricerca di un fantomatico ‘caradrio’ e non sei nemmeno sicuro che esista veramente e che abbia uno straccio di proprietà curativa?”.

 
MENA
 
 

Viveva rincantucciata tra le polveri della biblioteca. Mena. Si diceva avesse superato quarant’anni, ma aveva occhi di bambina e labbra morbide di fragole. Si muoveva lesta come una gazzella in angiporti di scaffali, né l’atterrivano nidi di ragno e zanzare. Perché Mena accarezzava ogni insetto quasi fosse una farfalla e per gli Aracnidi nutriva segreta passione. Se qualcuno si apprestava all’ucciderne uno, gli gridava: “No... Attirerai la mala sorte!” e s’acquattava, affinché non fosse vista.
Mena temeva la sfortuna e, così, se, per ventura, si scopriva traversare una porta, affrettava il suo andar carponi e contava a fior di labbra sino a venti. Poi si sfiorava il naso e via, con una litania di venti nomi di divinità greco-romane. Se dimentichi qualcuno non ti sposi, ripeteva il rosario dei suoi pensieri; se dimentichi qualcuno non ti sposi...
Non si era mai sposata. Mena. Molti avevano amato Mena, ma il rosario dei suoi pensieri aveva infranto come una brocca millecrepe e millecocci ogni fiorire di sguardi. L’aveva venerata con l’incanto con cui si scruta una danzatrice rituale l’avvocato Lenny. Ma con la luna d’agosto si era perso in un ciabattare di ragazzi di vita e quella Primavera dalle vesti color ortica sbiadì nelle sue fantasie.
L’aveva adorata Nanni il professore. Prima. Quando Mena sorrideva alle luci del mattino e Nanni sorrideva alle luci di Mena. Ma i libri ingenerano oblio; così Nanni fece carriera in accademia e Mena si scelse un cantuccio in biblioteca. A volte, come lo sguardo che un gabbiano insegue nei suoi voli, ne spiava gli studi inutili e affannosi. Sembrava vecchio Nanni, ma il suo argento non spiaceva a Mena, che pregava ritornasse a lei il giorno di Tuttisanti, con l’ausilio di una strega domiciliata tra le pieghe di un Diderot. Ogni anno, alla vigilia, picchiettava con insistenza tra la rilegatura e le pagine, là, dove ogni libello cela il proprio lato oscuro. Quella creatura fatta d’aglio e marzapane non le aveva mai risposto. Eppure la udiva, nelle sere d’inverno, che biascicava di mirabolanti pozioni, capaci di rinverdire amori sfioriti tra la polvere e le memorie amare.

 
 
LA SPOSA DEL TIGLIO
 
 

Vieni, sposa che siedi accanto al tiglio e all’ombra ristori il cuore immemore.
La stagione è trascorsa e la neve ha cancellato ogni ricordo di quel mattino in cui cantammo insieme le lodi del Signore. E tu indossasti il velo per i miei occhi, mentre la pioggia ci rammentava che talvolta anche l’estate è infida.
Indossasti il velo e danzasti a piedi scalzi per il tramonto che tingeva di melanconia la festa al declino. Il vino ci rischiarava l’anima e la letizia fioriva intorno a noi, insieme ai motteggi di cui l’ebbrezza è madre.
Tu non ricordi. Il tempo ha solcato i nostri campi, ma le tue labbra sanno ancora di corallo e miele e nei tuoi occhi ancora riluce l’ansia d’amore che l’oblio non ha saputo cancellare.
Lascia ch’io sieda accanto a te. Discreto, come il viandante che domanda asilo per poi riposare all’ombra amica. Non diffidare del mio viso stanco, delle rughe che ne hanno offuscato la bellezza, del mio accento, straniero a questa terra di nessuno in cui il tuo pensiero s’adagia.
Lascia ch’io ti sieda accanto e che ti parli. D’un’estate piovosa, d’una donna che danzava, d’un matrimonio benedetto da nuove nascite e canti nuovi. D’un sorriso che chiamava all’amore, della dolcezza imperiosa che rendeva quella donna (ricordi, mentre siedi nel silenzio?) signora delle stanze liete d’una dimora che il vento ha sferzato, ma non abbattuto.
Quella dimora sorge ancora e attende te, sposa che siedi accanto al tiglio. Ma tu non rammenti e sorridi a una farfalla che, come te, non ha passato e si sceglie in ogni istante un tempio nuovo, fiore dopo fiore.
Eppure anche quest’albero di tiglio dovrebbe parlarti d’un incontro lontano. D’uno sguardo che si schermiva e poi cercava il mio. D’un cantico che inebriava l’aura di promesse. Del sole, che accarezzava senza ferire. Delle mie braccia, cariche di fascine da ardere. Della brocca, che avevi posato sull’erba per ricrearti dalle fatiche del giorno. D’una rosa che reggevi tra le mani, proprio come in quest’istante e, se ti è familiare il suo profumo, credi alle parole disperate del viandante. L’ombra di ieri ti ristorerà com’era allora e tu saprai che lo straniero dice il vero.

 
 
PAROLA DI BARABBA
 
 

M’ha sorriso per la via, il figlio del falegname... Arrancava verso il Golgota, con la croce sulle spalle e le spine che gli graffiavano la fronte... Che aveva da ghignare quell’idiota? Comunque, qualsiasi cosa fosse non me ne importa un fico secco! Oggi sono libero... Libero!
Credevo che non avrei respirato mai più un’aria diversa da quella della fetida cella dove i fottuti Romani m’avevano rinchiuso. Volevano ridurmi al silenzio? Beh, non ci sono riusciti! È un osso duro, Gesù Barabba! Non dimenticherò mai la faccia che ha fatto il governatore: “Chi volete che vi rilasci, Barabba o Gesù, quello che è chiamato Cristo?” “Barabba!” “Che farò, dunque di Gesù?” “Sia crocifisso!”  Ben gli sta! Ora io sono qui grazie all’amnistia, mentre il suo amato Nazareno è cibo per i vermi...
Come gli è saltato il ticchio di dirsi figlio di Dio? Uno che probabilmente non era nemmeno figlio di suo padre. A Nazareth circolava voce che il falegname non l’aveva nemmeno sfiorata che quella Maria già aspettava un bambino... Un insulso marmocchio di madre nota e padre incerto! E pensare che la sposa di Giuseppe aveva una tale aria da verginella. Quella era vergine come mia madre al settimo figlio, ve lo dico io...
Quanto al Nazareno, se l’è meritato di finire appeso, con tutte le idiozie che andava sparando ai quattro venti! “Date a Cesare quel ch’è di Cesare”... Un colpo di sica ben assestato: ecco cosa gli darei a Tiberio Cesare e a quei bastardi Romani! Poi mi caverei la soddisfazione di restare a guardare lo spettacolo del loro ventre gonfio di cibi succulenti che macchia di rosso le zolle di Gerusalemme.

 
 
HOTEL PERSEO
 
 

Scoprii sorpreso che l’albergo era meno moderno di quanto mi fossi figurato: l’interno era di un liberty piuttosto eclettico nelle decorazioni, che spaziavano da motivi floreali, con gigli e iris che si intrecciavano un po’ ovunque, a immagini di ninfette sans merci più o meno discinte. Qua e là qualche affresco, spesso fuori contesto, con figure mitologiche: una Nuda Veritas dallo sguardo furente, una formosa  Europa, una voluttuosa Andromeda pronta al sacrificio.
Infilai la chiave nella serratura e la udii spezzarsi tra le mani; cadde in terra e mi ci vollero alcuni secondi per realizzare. Fu allora che la porta con un cigolio indefinibile si spalancò nel buio.

Era già giunta la sera, senza che nessuno l’avesse invitata o desiderata. La luce elettrica non funzionava, ma un robusto candelabro occhieggiava in bella vista su una cassettiera e non ebbi dubbi sull’uso cui piegarlo.
 
 
*
 
 

Spalancai la finestra, smanioso di liberarmi dal nero sentore di pericolo che avvertivo distintamente in quel piccolo appartamento;  in quel momento, nella corte sottostante, una giovane vestita di veli, con un fascio di iris tra le mani e margherite a mo’ di perle nei capelli, incrociò il mio sguardo e sorrise. Poi prese a cantare un triste madrigale: “Come può esser ch’io non sia più mio? / O Dio, o Dio, o Dio”. Avevo appena riconosciuto i versi di Michelangelo, quando udii la voce della damina cloche, che entrò come un soffio d’aria nella mia stanza: “Non faccia caso a quanto vedrà; Firenze ha un fascino eccentrico, ma innocuo”.

 

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